Architettura

Architettando 


Fare l’architetto è un mestiere strano. Ogni tanto mi svesto dei consueti panni, tolgo le mie scarpette di nabuk rosso, ripongo sulla sedia la giacca con la manica napoletana e l’immancabile pochette che sporge con disinvoltura dal taschino e in maniche di camicia, coi piedi nudi, contemplo quelli che ormai reputo i simboli più autentici del mio essere “architetto”.
Perché alla fine, la memoria collettiva identifica il monaco sempre per la veste e mai per quello è o per quello che fa. Il problema è che le mie vesti, e mi riferisco all’abbigliamento di cui sopra, ancora mi piacciono sennò avrebbero fatto la fine della mia pergamena di laurea: appesa sulla tazza del cesso di studio. Mi sarebbe tanto piaciuto vestirmi della qualità dei miei progetti, così come dei miei dipinti o delle mie parole. Ricordo ancora quando, con l’entusiasmo del neofita, in un intervento nell’ambito di un’assemblea del mio ordine professionale, ciarlavo di qualità affermando che bisognava prendere coscienza del fatto che “senza un adeguato corrispettivo economico non ci poteva essere qualità, senza sicurezza di un futuro confortante non ci può essere formazione, ricerca, senza un minimo di certezza in ambito territoriale non si potevano spendere energie ulteriori da quelle che quotidianamente permettono la soddisfazione dei bisogni minimi che eufemisticamente definivo come acquisto della merendina.
L’ARCHITETTO: una figura che nelle produzioni mediatiche si veste esclusivamente di fascino, ultimo latore di una onniscienza leonardesca, un semidio che percorre tutti i sentieri della nostra società: sociologia, tecnica, arte, armonia, finanche il volto stesso di una comunità viene plasmato da questa eminente figura ….. ridotto a rango di una specie di pseudo laureato dalle idee strambe da affittare (gratis) per esporlo agli amici, come status symbol, alla stessa stregua di una Louis Vuitton.
Che poi, alla fine, non m’importerebbe neanche tanto delle gratificazioni economiche, surrogate, in genere,  dalla fatidica formula: “vabbè architetto, per il momento …… grazie”.
Insidiato da un bisogno atavico di manifestare la sua arte, l’architetto che vive nel mio cadavere, riesce a mediare anche l’esigenza di bisogni elementari, nutrendosi quasi esclusivamente di sorrisi compiaciuti e pacche sulle spalle, emblemi eloquentissimi del riconoscimento della propria professionalità.
Mi butto così, di tanto in tanto, a capofitto in progetti complicatissimi dal punto di vista normativo che li rendono inappetibili se non contaminanti, anche solo per la corresponsione delle spese, cogliendo e ahimè, anche vincendo, la sfida del “nulla è impossibile”.
Non è per niente facile nemmeno così: il nostro grande popolo di navigatori, santi e poeti, è anche un popolo di architetti, arredatori e designer che vedendo ormai autorizzato in ambito amministrativo quello che altri tecnici avevano bollato come una chimera, armati di immancabili immaginette votive ritagliate dalle patinate bibbie domoeditoriali  acquistate nel dopo messa la domenica mattina, viene in studio a lavoro già finito per concordare le immancabili “varianti”. Riesce così, a farti maledire ulteriormente le tue domeniche passate a verificare il gradiente percettivo lungo i percorsi esterni, l’equilibrio tra pieni e vuoti, la rigorosità della composizione e tutte le altre cazzate che fanno di te un architetto.
Taglio corto, vi faccio vedere un paio di “COSE” che non vedranno mai la luce, se non quella virtuale, a dispetto di due anonime "CASE GIALLINE" definite così da un mio impareggiabile amico e collega. 



Quindi, alla fine, possiamo scaricare.........

 Un caro saluto, Rosario Ciotto architetto

 PENELOPE: particolari

Ho avuto modo di pubblicare un post illustrato da immagini scattate nello studio da me progettato che, suo malgrado, accoglie silenzioso e paziente i miei deliri esistenziali. Riguardandolo mi accorgo dei tanti particolari che non si colgono e ricordando il celebre aforisma di un celebre collega:  "Dio è nei dettagli" (God is in the details - Mies van der Rohe) integro la "mancanza" sperando di farvi percepire ancora meglio il frutto di un lavoro. Alcune immagini illustrano particolari e oggetti proposti ancora in fase progettuale nella pagina "Design". Qui vengono presentati contestualizzati nell'ambiente. Spero gradiate..... quantomeno le foto di Salvo Privitera.
Ricordate "Tiriuso" .... qui collocata nel servizio igienico come lampada d'ambiente

... e "VetrAVOlo" col suo monaco centrale regolabile attraverso tensori

"Padwave" vista dal soppalco
"Omino l'appendino"
"Tetrapode"






















particolare di "Videoto" che illumina l'innesto di volumi ruotati



 PENELOPE

Ricordo ancora le parole di un bimbo di sette anni che dopo lo stridio di una serranda malmessa e il cigolio di una vecchia porta di legno che lo introducevano per la prima volta in dei locali siti in zona centrale della mia città mi apostrofò così: papà….. ma perché hai comprato questa topaia?


com'era

Vi assicuro che ne aveva tutte le ragioni. I “loculi” come li avrebbe definiti un altro figlio in una celebre pellicola, apparivano davvero malmessi e distribuiti in maniera che definire rigida e sconsiderata appare eufemistico. La memoria mi riporta, di tanto in tanto, ancora gli odori di quella che diventò una lunga odissea, è pertinente così definirla, che mi fece approdare sui lidi del mio attuale studio che con affabile sarcasmo qualcuno battezzò “Penelope”. L’architettura è una cosa complicata soprattutto a causa del rapporto che si instaura tra architetto e committente, le istanze estetico/funzionali/morali, qualche volta anche esagerate lo ammetto, dell’uno si scontrano continuamente con una visione fondamentalmente opportunistica e quasi sempre miope dell’altro. Rileggo di tanto in tanto un libretto simpatico, scritto da un architetto, dal titolo “gli architetti… dovrebbero ammazzarli da piccoli” e ricordo tutti i dubbi e le perplessità che, in questo caso, il mio doppio ruolo mi imponeva. Come sempre, il mio fedele moleskine, che in quel periodo mi accompagnava anche a letto, come il radiotelescopio di Arecibo, catturava ogni utile intuizione captata nell’etere del mio universo mentale. Così, naturalmente, le mie visioni, macerate nei ripensamenti imposti dal ruolo di committente necessariamente parsimonioso, si materializzarono in un progetto che prese corpo piano piano e che ancora non è del tutto realizzato. Lo studio dell’architetto, quello che un mio collega amico definisce un tempio, il mio tempio, lo sto vivendo con calma, riscoprendolo con lentezza, vivendolo col timore di profanarlo ma esibendolo coll’entusiasmo e l’orgoglio con cui si “espone” un figlio. Ogni scarafone è bello a papà suo, fatemi sapere.




Rosario Ciotto
foto di Salvatore Privitera




 L'architettura "miracolosa"


Ogni tanto mi specchio. Stranamente ciò che la superficie riflette, evoca sempre quello che ricordavo fosse il mio volto. Perché tanti dubbi minano la certezza della mia identità? Avviene quasi sempre dopo il primo colloquio con i committenti di un lavoro, in particolare di ridistribuzione interna, quando, da bravo cultore della progettazione partecipata, invito i miei interlocutori ad esprimere esigenze e desideri. Dopo circa 90 minuti, spesso con i supplementari, la mia domanda di rito è: “Ma quant’è grande casa vostra?”  alla risposta “Novanta/novantacinque mq … ma netti si intende!!!” credo che l’unica soluzione al soddisfacimento di tanti sogni, sia la trasfigurazione in Padre Pio da Pietralcina o affini figure miracolose. Inevitabilmente, però, il verdetto dello specchio delude ogni mia velleità. Questo siparietto fu replicato oltremodo quando le richieste si susseguirono in: grande salone per ricevere ed accogliere numerose persone, cucina spaziosa dove poter alloggiare mega frigo full optional e comoda zona pranzo, due camere da letto, di cui una con cabina armadio, che possano diventare tre all’occorrenza, uno studiolo e doppi servizi. Provai vari tipi di martinetto per lo spanciamento delle pareti all’esterno, ma la tenacia dei laterizi posti a cassa vuota deluse ogni mia aspettativa. Come sempre accade, però, i pochi neuroni  sopravvissuti all’imbarbarimento cerebrale causato dalla nevrosi ritmica quotidiana fecero il loro dovere. Un involucro vetrato e colorato destinato momentaneamente a studiolo invase una porzione di salone con promessa solenne di terza camera da letto all’occorrenza ed un banale disimpegno accolse con viva soddisfazione un doppio lavabo da immolare sull’altare della flessibilità”. Controsoffitti e led amalgamarono il tutto profumando a colori un’atmosfera gradevole a armoniosa. 













                                                     
Rosario Ciotto

 Una puntata di vita



Ho sempre ritenuto valide le teorie che mettono in relazione pensieri, azioni ed ambiente, una sorta di empatia uomo/spazio condizionante a tal punto che non riesco quasi a pensare se non circondato da quella che, in un vecchio scritto, definii “una collezione di promesse disattese e mancate occasioni”. Il luogo mi ispira, le prospettive stimolano i pensieri, la luce li bagna di vita. Cosicché la morfologia dell’habitat modifica gli angoli d’incidenza e di riflessione dei pensieri che, filtrati dal substrato delle eterne incompiute a corredo, ritornano arricchite alla sorgente. 


  Questi i presupposti che m’inducono a progettare i miei luoghi.
E secondo queste premesse mi accinsi, nell’ormai lontano 2005, a progettare quello che, fra solo qualche giorno, non sarà più il microcosmo catalizzatore di tante idee.
La solita catastrofe mal messa mi attendeva nel momento in cui il mio amico collega mi confidò che voleva investire nell’acquisto di un locale da adibire a studio. La mia resistenza al cambiamento fu vinta solo dopo molteplici macerazioni, allontanarmi dalla mia parete arancione mi turbava non poco. Così cominciò quest’altra avventura che mi portava a confrontarmi con un volume rigidissimo a due piani, di cui uno interrato. 


L’unico barlume di vita, una volta ultimato il rilievo, proveniva da un fuori squadra dettato da quello che ai tempi avrà costituito un notevole cruccio per il progettista, un andamento viario non ortogonale. Colsi l’occasione al volo e dopo una lunga cura, degna dei migliori casi di maggior accanimento terapeutico, riuscii a mettere in piedi il moribondo.
Collegai organicamente il piano interrato al piano terreno innalzando di circa ottanta centimetri il livello di una porzione del solaio e definendo, di fatto, quello che per sei anni è stato il mio guscio, grembo di mille divagazioni. Il resto lo dettò la rotazione, di cui sopra, che ispirò l’intera composizione. Ricordo ancora la faccia dei colleghi all’idea di un controsoffitto nero inclinato, a quella della cesura orizzontale in vetro per la ridefinizione delle proporzioni ed alla realizzazione di una pagina bianca ruotata che non abbiamo mai avuto il coraggio di scrivere assieme compiutamente. Ed ora….. cambio pagina. Arrivederci alla prossima puntata.

Rosario Ciotto
Ninfosi edile



Nel 2002 una giovane coppia di amici venne in studio dicendomi che avevano comprato casa, volevano ristrutturare, ma c’era qualche “problemino”. Non mi meravigliai più di tanto, se le mie occasioni progettuali non viaggiano pericolosamente sul baratro dell’inattuabilità non le colgo neanche. Quindi con tanta pazienza e perseveranza indotte dal “bisogna pur campare in qualche modo”, mi accingevo ad un’altra missione impossibile.


L’immobile, se così si può definire, in c/da Casabianca del Comune di Messina, era composto da due corpi di fabbrica, entrambi ad una elevazione f.t. versanti in stato comatoso e per di più gravati da una delle iatture più infauste che il buon Dio inflisse alle umane genti a completamento delle piaghe d’Egitto: il CONDONO EDILIZIO.
Non vorrei attentare la vostra sanità mentale indugiando su quanto ho dovuto fare e produrre per arrivare al traguardo del gran premio della burocrazia urbanistica, ma vi assicuro, sono diventato matto.
Diciamo, quindi, in maniera decorosa che si è provveduto ad elaborare una collezione di carte, da fare impallidire la treccani, che permettesse un adeguamento dei fabbricati e legittimasse dal punto di vista normativo la volumetria per poi finalmente PROGETTARE qualcosa di decoroso.
Si è inserito un corpo scale in calcestruzzo faccia a vista che fungesse da legame/cerniera tra i due manufatti e, con l’ausilio di una struttura interna in acciaio, si è provveduto ad articolare due locali sottotetto e degli sbalzi a servizio. I volumi sono stati modellati e forati articolandoli secondo un linguaggio fondato sulla semiotica della rotazione. Il risultato……. lo lascio commentare a voi. 


P.S. Siamo in fase di realizzazione e tutte le lotte condotte con la committenza, atte al raggiungimento di un compromesso valido a scongiurare il pericolo della “casetta giallina”, spero non vengano pregiudicate dall’incommensurabile ingegno di un’impresa locale. Vi terrò informati.



JUS&JUS studio legale


Vestire un corpo illustre si confronta sempre con la necessità di velare senza camuffare, è un’operazione difficile, che presume senza supporre, che deve tener conto della volontà di caratterizzare nel rispetto di membra definite ed autoreferenziate. E’ questa la filosofia che ispira l’intervento che vi propongo in questo post, che ispira le scelte tangibili e, di conseguenza, la volontà di comunicare attraverso la materia.
Materia e luce a servizio di una “funzione” attuale concepita secondo schemi evocativi senza però voler sottrarre alla storia il suo valore aggiunto all’interno di uno dei contenitori edilizi più rappresentativi della mia città.
La funzione è quella di studio legale, nell’immaginario collettivo marcatamente austera e legata ad una solida tradizione che la percepisce attraverso simboli come la carta ingiallita, il legno scuro intarsiato ed una luce fioca che alimenta un’aura mistica, quasi ultraterrena a cui approcciarsi con deferenza.
Mi chiedo se non sia questo il mix compositivo che consente agli avvocati di farsi onorare le parcelle, quest’impressione di anticamera del purgatorio che incute timore e rispetto. Se fossero davvero questi i presupposti economici vincenti, credo che la JUS&JUS, brillante studio legale composto da giovani professionisti di successo, non plaudirà in futuro il mio operato.
La trasparenza del vetro, che segna e descrive con discrezione, la materia viva del legno, la tenacia dell’acciaio corten, amalgamate da un linguaggio illuminotecnico di grande impatto emotivo, fanno sì che il percorso attraverso gli ambienti di questo spazio richiami quanto ci si aspetti da una figura professionale quale quella del consulente legale.
Limpidezza intellettuale connessa a solidità e abilità professionali immerse nei riflessi di brillanti visioni, ecco in cosa riponiamo la nostra fiducia quando ci apprestiamo ad oltrepassare la soglia di uno studio legale. Questo ho voluto evocare nella scelta di composizioni dinamiche caratterizzate da materia sapientemente plasmata prima da semplici segni e poi dalle sapienti mani di collaboratori e artigiani coscienziosi.
In questa operazione mi sono avvalso della collaborazione di tre persone che ho contribuito a formare e di artigiani con cui coopero spesso, e vedere i loro sguardi soddisfatti e fieri mi ha ripagato di tutti gli sforzi fatti per dare coerenza effettiva ad un “disegno” e a tutte le inevitabili frustrazioni derivanti da velleità negate. 
P.S.- Le foto purtroppo non sono eccezionali, vi posso assicurare che dal vivo è molto meglio.



Legno, vetro e acciaio corten: insieme eloquentemente
sotto: trasparenze e luci e materia e luce




Il pavimento in Wenge che specchia il controsoffitto soprastante in vetro
materia e dinamismo